Lo scorso otto marzo la marea di Non Una di Meno si è riversata nelle vie e nelle piazze in una mobilitazione femminista su scala mondiale che ha assunto, in oltre 50 paesi, la forma di uno sciopero “internazionale e militante” delle donne. Nonostante la presenza di un sostrato di linee guida condivise, le modalità di sciopero e l’impostazione degli obiettivi a lungo termine sono state in molti casi plasmate dal piano locale per far fronte a specifiche problematiche presenti nel singolo territorio. Fra questi, l’otto marzo irlandese spicca per l’estrema specificità delle sue istanze: l’adesione dell’Irlanda allo sciopero internazionale femminista è stata infatti legata a doppio filo allo status dei diritti riproduttivi nel paese. La mattina dell’8 marzo 2017 a Dublino gli attivisti e le attiviste pro-choice hanno disertato in massa il posto di lavoro e picchettato le sedi dei principali ministeri per poi confluire in un massiccio concentramento su O’Connells Bridge, punto nevralgico della capitale, dove oltre 10.000 persone hanno bloccato il traffico per diverse ore. La protesta, apertamente ispirata alla CzarnyProtest polacca di pochi mesi prima, è stata ideata e attuata sotto il segno del leitmotiv che da anni domina la lista di priorità dell’azione collettiva irlandese: l’abrogazione del famigerato 8th Amendment.
Le ragioni sono evidenti: l’ottavo emendamento della Costituzione irlandese, approvato tramite referendum nel 1983, equipara tout court il diritto alla vita del nascituro a quello della donna incinta, rendendo di fatto quasi impossibile l’accesso all’interruzione di gravidanza. Sul piano legislativo le donne d’Irlanda, ritenute incapaci di operare scelte libere e consapevoli sui propri corpi, sono degradate a incubatrici. Autodeterminazione e autonomia riproduttiva soffocano nella morsa delle interpretazioni giuridiche: non si può abortire se si rimane incinte a seguito di uno stupro, né in caso di gravi malformazioni congenite del feto, figurarsi per motivazioni economiche o per scelta personale. L’IVG è autorizzata esclusivamente in presenza di pericolo concreto e imminente per la vita della donna incinta, fattore che va tuttavia valutato tramite perizie mediche che si sono più volte dimostrate poco oggettive: tristemente noto il caso di Savita Halappanavar, morta di setticemia nel 2012 dopo essersi vista negare un aborto terapeutico. Fino al 1992 era illegale perfino recarsi all’estero per abortire o fornire informazioni su strutture estere che praticassero tali procedure. Oggi si stima che una media di dodici donne al giorno siano costrette a recarsi in Gran Bretagna per procurarsi un’interruzione di gravidanza, opzione che comporta costi notevoli in termini di tempo, denaro ed investimento emotivo. Dal momento che i tentativi di importare pillole abortive sono puntualmente repressi con inverosimile accanimento tramite sequestri alla dogana e perquisizioni in case private, l’unica alternativa praticabile nel Paese rimane l’aborto chirurgico clandestino, punibile (sia per chi lo richiede che per chi lo procura) con la reclusione fino a 14 anni. Ad arricchire il quadro già poco rassicurante non può mancare una costellazione di gruppi pro-life di varia natura e dimensione, pronti a presidiare la fortezza dell’ottavo emendamento tramite un ricco ventaglio di tattiche: dal lancio dell’ipocrita campagna antiabortista Love Both (“Amiamo entrambi”, in riferimento alla madre e al feto) agli adepti che, fingendosi militanti della fazione opposta, si uniscono ai cortei pro-choice recando cartelli con scritte violente o eticamente problematiche, al fine di gettare discredito sul movimento. L’attuale legislazione sull’aborto ha infine il sostegno di gran parte delle forze politiche irlandesi, come dimostrato dal fatto che pressoché ogni iniziativa per l’abrogazione o la mitigazione dell’ottavo emendamento viene puntualmente stroncata sul nascere non appena raggiunge il parlamento. Anche di fronte alla prospettiva di un referendum, annunciato dal capo del governo Varadkar per la primavera 2018, alcuni attivisti e attiviste pro-choice temono l’ennesimo fuoco di paglia, dacché ci sono buone ragioni per pensare che il quesito referendario possa essere formulato in maniera volutamente ambigua, finendo per non modificare alcunché.
A tale scenario desolante è essenziale, nonché spontaneo, opporre meccanismi di resistenza: nel 2012, una rete di gruppi pro-choice ha innescato la miccia organizzando la prima March for Choice a ridosso della Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro. Col passare del tempo, buona parte delle realtà pro-choice sono confluite nell’eterogenea Coalition to Repeal the 8th Amendment, che conta oggi oltre un centinaio di membri tra organizzazioni per i diritti umani, gruppi femministi e LGBTQ+, movimenti sociali, sindacati, associazioni di medici e professionisti sanitari, organizzazioni non governative e partiti politici. All’opera di costante pressione sulle istituzioni si affiancano le reti di solidarietà clandestine, che si occupano di fornire informazioni e supporto logistico a chi vuole interrompere una gravidanza e procurano farmaci abortivi alle donne che non hanno la possibilità di lasciare il paese. Ad oggi la March for Choice di Dublino, guidata dal gruppo Abortion Rights Campaign (politicamente inclusivo ma a forte presenza anarcofem), è alla sua sesta edizione, con una partecipazione che raddoppia anno dopo anno e che ha sfiorato le 40.000 presenze in occasione del recente corteo del 30 settembre.
Credo non esista una sola realtà politica in Irlanda che non si sia espressa sull’ottavo emendamento o non abbia declinato la questione secondo il proprio spartito ideologico. In termini di posizionamento il ventaglio di differenze è ampio e il rischio maggiore è quello di dare spazio a un approccio essenzialmente legalitario, che si affida esclusivamente alla benevolenza dei piani alti e che vede nella semplice abrogazione dell’ottavo emendamento il fine ultimo della campagna. Ma prima ancora dell’emendamento, vanno smantellate le dinamiche di potere (patriarcale e non solo) che gli fanno da impalcatura; così altre realtà inquadrano l’abrogazione come null’altro che un primo passo, necessario ma non sufficiente, verso un cambiamento sociale radicale che deve farsi anche carico di istanze apertamente antisessiste, antirazziste e anticapitaliste. La battaglia contro l’ottavo emendamento è di per sé una vertenza che può definirsi intersezionale a pieno titolo, poiché interseca innumerevoli questioni di ceto e classe, di razza e nazionalità, di identità di genere, perfino di abilismo. Chi scarseggia di mezzi economici non può permettersi di affrontare viaggi internazionali, costose procedure chirurgiche e periodi di assenza dal posto di lavoro; il peso di una trasferta è incommensurabile per una donna non europea i cui documenti vengono sottoposti a spietato scrutinio ogni qualvolta tenta di varcare un confine, per non parlare delle profughe, delle richiedenti asilo e delle donne che risiedono illegalmente sul territorio irlandese. E ancora, come può una persona con una disabilità motoria o una malattia cronica sobbarcarsi le difficoltà di organizzare autonomamente un viaggio all’estero in mancanza di assistenza? E su quale margine di manovra possono contare gli uomini transgender nel caso in cui avessero bisogno di ricorrere a un’IVG?
Vivo a Dublino da poco più di sei mesi. Prima di trasferirmi e di entrare in contatto con i compagni e le compagne che da anni contrastano le logiche oppressive dietro all’ottavo emendamento, forse non coglievo questa complessità, questa ricchezza di prospettive. Ricordo, non senza imbarazzo, di essermi chiesta se la lotta femminista irlandese non si stesse perdendo qualcosa: mi sembrava che una campagna “monotematica” come quella di Strike4Repeal, per quanto indiscutibilmente prioritaria, rischiasse di privare le realtà coinvolte dell’approccio di più ampio respiro che si riscontrava altrove. Imperdonabile superficialità, o forse il mio errore stava a monte: come affermava un’immensa Audre Lorde, “there is no such thing as a single issue struggle, because we do not lead single issue lives”.
Huckfinn